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torquemada

Afghanistan :

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@torquemada lo ha citato e allora gli dedico un pezzo di Limes

 

Perché l’America abbandona l’Afghanistan all’oblio

16/08/2021

Un paese diventato inutile, alimento per chi contesta l’impero americano, funzionale solo a provare ad attirare in una trappola le potenze vicine. Che difficilmente ci cascheranno.

L’Afghanistan in mano ai taliban non è novità degli ultimi giorni. La fuga da Kabul è goffa e umiliante. Ma inevitabile conseguenza della decisione degli Stati Uniti di un anno e mezzo fa di abbandonare il paese e consegnarlo scientificamente agli studenti pashtun. Evento di impatto emotivo e simbolico, privo però di reali conseguenze strategiche. Dopo il quale conta soltanto osservare se e quanto attirerà russi, cinesi, pakistani, iraniani, turchi e indiani nel caos.


L’Afghanistan non è caduto in dieci giorni, ma in 18 mesi. Da quando nel febbraio 2020 a Doha gli americani si sono accordati con i taliban per ritirarsi praticamente senza condizioni. Cui sono seguiti gli informali patti stretti con pakistani, turchi, cinesi, russi: tutti concordi nell’affidare il paese a chi lo governò fino al 2001.


Da allora, gli studenti hanno stipulato accordi con milizie, reparti dell’esercito regolare, capi tribali e autorità locali in ogni parte del paese. Prima a livello di distretto, quindi provinciale. Hanno preparato meticolosamente la quasi incruenta assunzione del potere di queste ore. Si sono curati di non suscitare indignazione fra gli stranieri, senza lasciarsi andare alle barbare celebrazioni della precedente conquista, avvenuta nel 1996. Hanno promesso soldi, cariche o incolumità, contando sul senso di abbandono diffuso tra le sgangherate Forze armate. Hanno dimostrato di tenere alla legittimazione internazionale e di essere in grado di generare consenso. Azione sofisticata che, unita all’investitura ricevuta dall’estero, ha indotto il cosiddetto esercito afghano a dileguarsi.


Dal loro punto di vista, i taliban hanno tutto sommato rispettato gli impegni presi con gli Stati Uniti. I quali a loro volta, come spiegato dal segretario di Stato Antony Blinken, hanno deciso di “non togliersi i guanti” di fronte all’offensiva del nemico, permettendogli di prendere il controllo del paese. Ciò che Washington non si aspettava è stata la velocità di esecuzione, che l’ha esposta a considerevole imbarazzo. I taliban avevano “promesso” all’intelligence d’Oltreoceano di agire con maggiore lentezza. Evidentemente troppo ghiotto s’è rivelato l’impulso di mettere in imbarazzo il nemico, pure se nel frattempo assurto a interlocutore.


Il danno di reputazione è tangibile, ma il buon nome non basta a fare o a disfare una potenza. L’abbandono dell’Afghanistan scandalizza gli alleati dell’America, ma non incide sulle loro scelte strategiche. Giapponesi o taiwanesi sono sicuramente sensibili alla facilità con cui gli Stati Uniti hanno lasciato Kabul al proprio destino, ma non per questo si consegneranno alla Cina, anzi duplicheranno gli sforzi per ottenere garanzie difensive.


Discorso simile per gli europei: imbestialiti dalla compartecipazione alla figuraccia, non hanno la possibilità materiale di creare un sistema d’alleanze indipendente da Washington, anche se potrebbero opporre maggiori resistenze a farsi coinvolgere in altre operazioni pensate dalla superpotenza, in particolare quelle per arginare Pechino.

 

L’America ritiene di potersi permettere di evacuare l’Afghanistan, per molteplici ragioni.


Innanzitutto, quest’ultimo non è un paese strategico e ha perso anche la relativa importanza tattica di cui ha goduto per un certo tempo. La competizione tra Stati Uniti e Cina si decide in mare, non sulle alture dell’Hindu Kush. Tantomeno ha rilievo ciò che capita in un paese privo di infrastrutture, dominato da clan e tribù. Al netto delle drammatiche violenze che i taliban potranno perpetrare sulla popolazione locale, l’Afghanistan conta quasi nulla.


Inoltre, Biden ha confermato il ritiro ufficializzato sotto Trump perché nel frattempo è intervenuto l’attacco al Congresso del giorno d’Epifania. L’Afghanistan ha alimentato negli anni il malcontento che agita una parte della popolazione statunitense contro le istituzioni. Gli assalitori del Campidoglio rimproverano al governo federale fra le altre cose le inutili guerre in Medio Oriente al terrorismo, infinite perché infinibili, dunque destinate a terminare in tragedia. Un’intera generazione di guerrieri americani si è formata, ferita, uccisa in conflitti astrategici, non esistenziali. Le sconfitte si ripercuotono sempre nella pancia di un impero.


La tempesta interna preoccupa più del previsto i governanti e li ha consigliati a staccare la spina senza indugio. Tuttavia l’umiliazione della fuga da Kabul deprimerà ulteriormente le truppe e pure le burocrazie federali, sgomente di fronte a tanto fallimento, blandendo la già sbiadita fede nella loro missione civilizzatrice, alimento di ogni impero.


Infine, Washington desidera da tempo trascinare nel pantano afghano tutte le potenze dell’area. Vero obiettivo della dipartita, sebbene complesso da centrare.


L’America vorrebbe in particolare indurre la Repubblica Popolare a impegnarsi. In alternativa, spera che il caos afghano traligni in Pakistan, lungo il corridoio delle nuove vie della seta che dal Xinjiang conduce al porto di Gwadar (Guadar). Evento che costringerebbe Islamabad a gestire direttamente il vicino e Pechino a rivalutare il progetto. Ma appare alquanto improbabile che i taliban non riescano a controllare il territorio, specie considerato il sostegno internazionale di cui beneficiano.


Gli Stati Uniti pretendono che a occuparsi del paese sia parzialmente la Turchia, tra i principali mediatori tra americani e taliban nei colloqui in Qatar, con l’obiettivo di sfiancare le velleità neo-ottomane. Ankara è fortemente interessata all’Asia Centrale, parzialmente anche all’Afghanistan, paese iranico dotato di minoranze turcofone, trampolino verso gli uiguri di Cina. Ma Erdoğan ha paura della sua ombra, evita puntualmente passi avventati, difficile si abbandoni al narcisismo nel cimitero degli imperi.


Gli americani apprezzerebbero anche un notevole sforzo della Russia, tra quelle potenze che nei secoli si sono suicidate in Afghanistan. Magari per ribadire il proprio rilevante ruolo in Asia Centrale. Ma – pure fosse incredibilmente immemore degli eventi passati – Mosca non possiede i mezzi per lanciarsi tanto in profondità, inconsistenza che la pone al riparo da azioni sconsiderate.


Evidenze che presumibilmente abbandoneranno l’Afghanistan al proprio oblio strategico, forse consegnandolo alle cronache soltanto come drammatica origine di nuovi flussi migratori che riguarderanno soprattutto il Vecchio Continente. Senza affondare i principali antagonisti degli Stati Uniti.


Eppure abbastanza per convincere Washington d’aver compiuto la scelta giusta. Stufa di attardarsi in un contesto pressoché irrilevante e dispendioso – e poco conta se a erogare materialmente i miliardi spesi sia stata la Cina attraverso il debito pubblico d’Oltreoceano, secondo la massima napoleonica del “mai disturbare un nemico che sbaglia”.


Gli Stati Uniti intendono concentrarsi soltanto sulle questioni strategiche, assai meno su quelle scenografiche. Il rischio di guastare la propria narrazione è concreto, specie in Europa, unico continente che bada realmente a democrazia e diritti umani. Ma l’alternativa sarebbe sprecare ulteriore tempo e impegno. Non si poteva agire altrimenti.

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Non bisognava legge quello giornalittu de Lime pe capi’ che prima o poi se la sarebbero data tutti a gambe dall’Afghanistan...costava qualche miliarduccio a lu giorno!..

il fatto è  che (secondo me) ...non ė ch l’Afghanistan non ė più strategico ( grossa bucia  pe’ giustificá li miliardi buttati al vento)...è che l’Eurasia non ė più COSA LORO...( se mai lo fosse stata)...per una serie di infiniti motivi...tra cui il principale , checchè se ne dica, quello culturale.....

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TUTTE LE STRADE DELL’OPPIO PORTANO A KABUL

 6/11/2013

Trent’anni di guerra hanno creato nel cuore dell’Eurasia una narcopotenza che rifornisce di oppiacei Europa, India, Iran e Russia. Gli interessi di Karzai e le reticenze europee hanno sabotato la campagna antidroga della Nato. Gli scenari del dopo-ritiro.

Pubblicato in: IL CIRCUITO DELLE MAFIE - n°10 - 2013

1. IL GRANDE SVILUPPO DELL’INDUSTRIA DELLA droga in Afghanistan è il risultato del trentennio di guerre abbattutosi sul paese dopo l’ascesa al potere dei comunisti e l’intervento militare sovietico del 1979. È stata infatti la brutale campagna di controguerriglia dell’Armata Rossa a determinare negli anni Ottanta del Novecento la distruzione dei sistemi d’irrigazione che avevano consentito la conduzione delle attività agricole tradizionali in una parte significativa del territorio afghano. L’idea dei generali inviati dal Cremlino ad assistere gli inetti compagni di Kabul era di sconfiggere la resistenza desertificando le province più riottose, rendendole così improduttive. Si trattava di un’applicazione rozza dei princìpi della lotta controinsurrezionale, che già a quel tempo postulavano la separazione degli irregolari dalle popolazioni civili, seppure in un senso assai diverso rispetto a quello che gli avrebbe dato successivamente David Petraeus.

Da quella scelta derivarono importanti conseguenze: non solo la generazione di un immenso flusso di profughi – milioni di persone scapparono verso l’Iran e il Pakistan per rimpatriare solo in parte dopo il 2001 – ma soprattutto l’attecchimento della coltura del papavero nelle aree devastate dalla 40 a Armata spedita da Mosca a stabilizzare il proprio satellite. Privati delle loro fonti di sussistenza, i contadini trovarono infatti in questo fiore un’insperata fonte di reddito immediato, capace di generare un raccolto con poche cure anche in condizioni difficili. I mujāhidīn assecondarono la riconversione produttiva, scorgendo nell’esportazione dell’oppio la possibile fonte di introiti da destinare al loro sforzo bellico: un’operazione presentata come moralmente ineccepibile nel contesto del jihād, che rendeva lecito anche l’uso di mezzi riprovevoli come lo sfruttamento della droga. Le coltivazioni, comunque, non raggiunsero mai dimensioni spettacolari prima della guerra civile seguita alla ritirata sovietica. Se nel 1980 la produzione di oppio fu pari a 200 tonnellate, otto anni dopo si attestava appena oltre le mille. Soltanto durante i sanguinosi scontri intestini del quadriennio 1992-96 i leader del vecchio jihād antisovietico si trasformarono in imprenditori del narcotraffico, utilizzando i proventi della loro attività per reclutare e mantenere milizie consistenti, oltre che per arricchirsi. Nel 1994 venivano così sintetizzate quasi 3.500 tonnellate di oppio.

Tassarono il raccolto anche i taliban, che – apparsi nell’Afghanistan meridionale proprio allora – si sarebbero impadroniti di Kabul nel 1996 e due anni dopo avrebbero esteso il loro dominio al grosso del paese. Resistette alla loro avanzata solo Ahmad Shah Masud, nella Valle del Panshir, ma neanche gli uomini dell’Alleanza del Nord si fecero scrupolo alcuno nell’attingere ai proventi del papavero.

L’Emirato Islamico dell’Afghanistan continuò a tollerare la produzione di droga fino al 2000, quando improvvisamente il governo del mullah Omar decise d’intraprendere una campagna capillare per arrestare lo sfruttamento economico dell’oppio, probabilmente nell’intento di ottenere legittimazione all’estero. Le Nazioni Unite e gran parte degli Stati che ne facevano parte – salvo Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan – non avevano infatti riconosciuto il nuovo regime installatosi a Kabul, preferendogli quello rappresentato dal presidente Burhanuddin Rabbani, il leader tagiko dell’Alleanza del Nord.

Gli effetti della svolta furono comunque importanti: la superficie coltivata, che aveva raggiunto i 90 mila ettari nel 1999 garantendo una produzione record di quasi 4.600 tonnellate di oppio (pari al 79% del totale mondiale dell’epoca), nel 2001 scendeva a circa 10 mila ettari, per un prodotto di sole 185 tonnellate. Furono questi dati a indurre Pino Arlacchi, allora al vertice dell’Unodc (l’Ufficio Onu per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine), a identificare nei taliban i più efficaci agenti di contrasto al narcotraffico afghano.


2. La situazione cambia sensibilmente con l’intervento militare internazionale seguito ai fatti dell’11 settembre 2001. Già nel 2002, la superficie coltivata a papavero risale a 75 mila ettari. Nel 2004 oltrepassa i 130 mila, per poi scendere a poco più di 100 mila e quindi esplodere nel 2006 (circa 160 mila) e nel 2007, quando sfiora i 200 mila ettari. A ciò corrisponde una produzione di ben 8.200 tonnellate, corrispondenti al 93% dell’output mondiale di oppiacei. Nel biennio 2009-10 l’area adibita alla coltivazione del papavero si stabilizza a circa 120 mila ettari, per poi aumentare di nuovo e portarsi nel 2012 oltre i 150 mila. Le previsioni finali per il 2013 sono al rialzo 1.

Le province maggiormente interessate sono quelle meridionali e occidentali di Kandahar, dell’Helmand e di Farah, area nella quale hanno lungamente opera­to anche i militari italiani con le Task Force South e South East, scontrandosi non di rado con questa realtà. Ma il papavero va forte anche in alcune zone del Nord. Cosa ci sia dietro questo rapidissimo incremento è presto detto: la sostanziale anarchia vigente in Afghanistan che dà ampi margini ai signori della guerra locali, i quali hanno ripreso a sfruttare oppio ed eroina per arricchirsi, rafforzare il proprio potere ed acquisire influenza politica a Kabul 2.

Come nei Balcani degli anni Novanta, si affermano anche in questo contesto dei veri e propri potentati di natura mafiosa, in grado di intimidire le istituzioni locali e infiltrare quelle nazionali, senza tuttavia dar vita a grossi conglomerati criminali paragonabili a quelli latinoamericani o cinesi: l’Afghanistan rimane terra della frammentazione anche sotto quel profilo. Nel 2006, Mark Shaw stimava per conto dell’Unodc e della Banca mondiale che al vertice della piramide del narcotraffico si trovassero circa 25-30 soggetti chiave, metà dei quali residenti nel Sud, in grado di trattare con i capi provinciali e distrettuali delle forze di sicurezza. L’industria contava altresì 200-250 grandi trafficanti, 5600 commercianti di medio livello e 10-15 mila dettaglianti, coinvolgendo alla sua base non meno di 350 mila famiglie 3.

Vengono presto sospettati di partecipare al lucroso business anche personaggi assai in vista della scena politica afghana: come il fratello del presidente, Ahmed Wali Karzai, assassinato il 12 luglio 2011 in circostanze poco chiare a Kandahar da un suo confidente 4; il governatore della provincia settentrionale di Balkh, Ustad Atta, accusato dal capo della polizia locale di esser coinvolto nel narcotraffico; familiari di Daud Khan, già comandante del Corpo d’armata di stanza a Kunduz e per un periodo viceministro dell’Interno 5.

Le risorse della droga foraggiano estesi fenomeni di corruzione. Tornano sui loro passi persino i taliban sopravvissuti alla sconfitta del 2001, che riprendono a tassare i redditi legati all’industria della droga (favorendo talvolta anche la raffinazione della stessa) e dal 2004-5 scatenano una guerriglia che mette alle corde sia le forze statunitensi di Enduring Freedom sia quelle Isaf (sotto bandiera Nato). È un’attività dalla quale si ritiene che i seguaci della Šurā di Quetta traggano ricavi non inferiori al mezzo miliardo di dollari all’anno 6.

L’impetuoso sviluppo della narco-economia afghana conosce solo temporanee battute d’arresto: a influire è più l’andamento dei prezzi di oppiacei ed eroina sui mercati mondiali che una qualche seria azione di contrasto intrapresa dal governo di Kabul o dalle truppe internazionali. Talvolta, si avvertono anche gli effetti degli eventi naturali: un periodo eccezionalmente secco, ad esempio, o l’arrivo in Afghanistan di qualche aggressivo parassita, che pare abbia ridotto sensibilmente il raccolto dello scorso anno.


3. La narco-industria afghana configura quindi, negli anni dell’intervento militare occidentale, un problema internazionale di prima grandezza: non soltanto per l’obiettiva incidenza della produzione locale sul totale mondiale, ma anche per i flussi d’esportazione che nutre. A causa della relativa scarsità dei laboratori di raffinazione, non tutto l’oppio afghano viene trasformato in eroina. Una parte è smerciata sotto specie di panetti da lavorare. Inoltre, cospicue quantità sono immagazzinate per tenere artificiosamente alto il prezzo internazionale della droga.

Ciò nonostante, l’eroina proveniente dall’Afghanistan svolge un ruolo decisivo nel rifornire i mercati clandestini di alcune aree e paesi cruciali. Contamina ad esempio la Russia, l’Iran e la stessa Europa, dove a farne le spese sono centinaia di migliaia di giovani; ma non gli Stati Uniti, dove la droga proveniente da Kabul arriva solo in misura minima. Passando per il porto pakistano di Karachi, le esportazioni afghane raggiungono persino l’Africa centrale e il Sud-Est asiatico, dove fanno concorrenza alla produzione birmana.

Le direttrici principali di distribuzione sono tre. La prima interessa l’Asia centrale, dove l’eroina (poco meno di 100 tonnellate stimate) penetra principalmente attraverso il Tagikistan e l’Uzbekistan, per poi raggiungere il territorio federale russo, sul cui mercato ne vengono spacciate ogni anni poco meno di 80 tonnellate 7.

La seconda attraversa la frontiera iraniana, malgrado la Repubblica Islamica abbia allestito un potente dispositivo di controllo, e veicola oltre 100 tonnellate di eroina all’anno. Un quinto di questo ingente quantitativo viene consumato direttamente in Iran, mentre il resto transita in Turchia, risale i Balcani e irrompe in Europa 8, dove giungono circa 80 tonnellate di eroina, che coprono buona parte della domanda continentale.

La terza si dirige verso l’attiguo Pakistan, dove entrano circa 150 tonnellate di eroina all’anno, delle quali però meno di 20 sono trattenute sul mercato locale: le altre 130 verso il resto del mondo, incluse la Penisola Arabica e la Cina.

Date queste premesse, l’interesse mostrato dalla Russia per quanto accade in Afghanistan non sorprende, anche se vi contribuiscono altri fattori di natura geopolitica. La droga è infatti una minaccia di prima grandezza alla salute della gioventù sulla quale il presidente Vladimir Putin scommette per invertire il declino demografico del paese. Stime del 2010 quantificano in 30 mila le vittime annualmente mietute dall’eroina afghana nella Federazione. Ciò spiega perché Mosca reclami da tempo più energiche iniziative alleate di contrasto alla produzione e all’esportazione degli oppiacei provenienti dall’Afghanistan, incluso il ricorso allo spraying aereo, offrendosi di concorrere attivamente alla repressione del fenomeno, mentre si potenziano le capacità antidroga nell’area del Patto di Tashkent 9. Pure l’Iran, che sta sperimentando un forte aumento delle tossicodipendenze, è molto sensibile a quanto accade al di là dei propri confini.


4. Stupisce invece il disinteresse dimostrato finora dagli europei, che pure fanno i conti con la droga di origine afghana nelle loro città. In realtà, i paesi dell’Ue presenti militarmente in Afghanistan avrebbero avuto modo di far valere la propria opinione al riguardo, esigendo ad esempio un allargamento del mandato di Isaf per ricomprendervi una robusta campagna antinarcotici. Hanno invece preferito dare ascolto agli appelli di Hamid Karzai, secondo cui si deve evitare di inimicarsi gli afghani che dipendono dal papavero per il proprio sostentamento; tra questi si dice vi siano anche autorevoli esponenti del suo clan, i pashtun popalzai.

Sta di fatto che la Nato non ha sposato la strategia dell’irrorazione a lungo caldeggiata dagli americani, anzi ha lasciato piena libertà agli alleati di definire autonomamente il proprio atteggiamento sul campo. Di fatto, appoggeranno gli sforzi della Dea e dell’Afghan Eradication Force soltanto gli inglesi, e con notevoli riserve 10.

Non ha fatto molta strada neanche la strategia antiproibizionista del Senlis Council, per il quale la comunità internazionale avrebbe dovuto acquistare l’intera produzione oppiacea afghana per utilizzarla a scopi medici e sottrarla alle dinamiche del crimine. Ha così prevalso il punto di vista dei comandanti sul terreno (inclusi quelli britannici), poco inclini ad aumentare il numero dei nemici da fronteggiare e disponibili pertanto a chiudere un occhio. Le invocazioni alla prudenza presso le rispettive capitali, per contenere le perdite, hanno prodotto una strategia di disincentivazione soft, basata sull’incoraggiamento di colture alternative quali lo zafferano, che pure qualche risultato l’ha dato.

È legittimo chiedersi cosa accadrà dopo il ritiro delle forze internazionali dall’Afghanistan, che appare sempre più probabile dopo il 31 dicembre 2014, alla luce del carattere ormai marginale di quel teatro nella visione strategica del presidente Obama. Tutto ruota intorno alle modalità di soluzione del conflitto, attualmente del tutto incerte. L’unica cosa di cui si può esser ragionevolmente sicuri è che il grosso delle ricchezze accumulate dai narcotrafficanti prenderà la via di Dubai, se non altro a scopo precauzionale, come assicurazione in caso di esilio o fuga precipitosa da un paese che potrebbe tornare improvvisamente inospitale e pericoloso per molti.

Un accordo di coalizione tra i taliban e l’Alleanza del Nord, o quanto meno una sua parte, farebbe propendere per una prosecuzione dello sfruttamento intensivo del narcotraffico anche nel futuro prossimo. Le parti sfrutterebbero infatti i proventi dell’oppio e dei suoi derivati per rafforzarsi e preservare la propria influenza politica, esattamente come prima del 2001, accrescendo l’incentivo delle potenze regionali a interferire con le dinamiche interne di Kabul, per mitigare i flussi di eroina verso i loro territori. Spingerebbe nella medesima direzione l’inesorabile inaridirsi degli aiuti internazionali, in realtà forme sofisticate di captatio benevolentiae finalizzate alla sopravvivenza dei nostri militari in teatro e destinate a venir meno con il ritiro.

Se invece gli uomini del mullah Omar riuscissero a ristabilire un ferreo controllo sul paese, non è affatto improbabile che – magari in ottemperanza a qualche clausola degli accordi che verrebbero stretti con gli Stati Uniti – il futuro governo afghano possa dar vita a una nuova repressione, che oltretutto garantirebbe ai taliban una qualche riabilitazione e forse un maggior potere sul piano interno, posto che lo sradicamento delle colture illegali ridurrebbe significativamente la possibilità di finanziare milizie in grado di impensierirli.

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1. Cfr. Afghanistan Opium Risk Assessment 2013, Unodoc-Islamic Republic of Afghanistan Ministry of Counter Narcotics, aprile 2013.

2. C.D. MAASS, Afghanistan’s Drug Career, AAN Thematic Report, March 2011, p. 5; B. BORD, L’Afghanistan est-il un narco-État?, Paris 2013, L’Harmattan.

3. M. SHAW, «Drug Trafficking and the Development of Organized Crime in Post-Taliban Afghanistan», in D. BUDDENBERG, W.A. BYRD (a cura di), Afghanistan’s Drug industry. Structure, Functioning, Dynamics and Implications for Counter-Narcotics Policy, Unodc-World Bank, novembre 2006, p. 204.

4. «Reports Link Karzai’s Brother to Afghanistan Heroin Trade», The New York Times, 4/10/2008; «Brother of Afghan Leader Said to Be Paid by C.I.A.», The New York Times, 27/10/2009.

5. A. GIUSTOZZI, War and Peace Economies of Afghanistan’s Strongmen, International Peacekeeping, vol. 14, n. 1, gennaio 2007, pp. 81-82.

6. G.S. PETERS, «The Taliban and the Opium Trade», in A. GIUSTOZZI (a cura di), Decoding the New Taliban: Insights from the Afghan Field, London 2009, Hurst, pp. 7-22.

7. «North Afghanistan: “a Bridge Head for Drug-Trafficking to Russia”. An Estimated 90% of Heroin Consumed In Russia Is Trafficked from Afghanistan via Tajikistan and Uzbekistan», Ria Novosti, 23/10/2009.

8. M. TOKYAY, «Turkey and Balkans Battle Drug Trafficking», South East European Times, 23/4/2013.

9. «Nato Rejects Russian Call for Afghan Poppy Spraying», Reuters, 24/3/2010.

10. J. WOLF, «The ‘Cabal’ That Prevents a Counterdrug Program in Afghanistan, Transatlantic Relations, 9/8/2008.

Pubblicato in: IL CIRCUITO DELLE MAFIE - n°10 - 2013
 

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Posto qui sopra un vecchio articolo sempre di Limes sulla questione oppio, una delle basi della economia afgana, fattore da non dimenticare, insieme ai proventi derivanti da tasse "islamiche", di transito, di passaggio etc. Su cui è basata la corruzione di questa regione-cuscinetto

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5 ore fa, adriatico ha scritto:

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/lafghanistan-un-anno-dallaccordo-di-doha-29496

 

Lettura molto interessante. Soprattutto per chi, come il Capitano, parla di fuga improvvisa degli USA (come se un ritiro del genere si decidesse in 48 ore). 

Interessante e sintetico, molto specifico dei fatti sul campo

Grazie

 

 

  • Voto Positivo 1

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Ancora da Limes, Geopolitica delle droghe e dei traffici in Afghanistan e Medio Oriente

 

Il fiume di metamfetamina dell’Afghanistan sfocia anche in Italia

Un anonimo arbusto ha rivoluzionato il mercato della droga mediorientale (e non solo). L’Hindu Kush è la sorgente del corso di cristalli maledetti. Iran, Iraq e Siria ne formano l’alveo. Il nostro paese rischia di diventarne la foce.

L’efedra sinica è un arbusto tenace. Abbonda sulle colline aride dell’Afghanistan centrosettentrionale, dove è chiamata oman. I suoi ciuffi di lunghi steli non hanno valore ornamentale e i suoi pseudofrutti rossi non sono consumati come alimento. Eppure, pur di procurarsela molti contadini afghani sono disposti a inerpicarsi sui pendii rocciosi, armati di falcetto e coraggio.

L’esplosione del consumo di amfetamine in Iran risale a più di un decennio fa. Il numero di laboratori clandestini smantellati dalle autorità rivela una crescita impetuosa della produzione domestica fino al 2013, a cui è seguito un calo costante negli anni successivi. I quantitativi di droga sequestrata hanno invece ripreso a crescere già da diversi anni, fino all’impennata registrata tra il 2018 e il 2019, quando si è passati da poco meno di 3 tonnellate confiscate a 17. L’efficacia repressiva delle autorità e l’aumento della concorrenza in patria hanno infatti spinto i trafficanti iraniani a delocalizzare le attività nel paese vicino.


La produzione di metamfetamina in Afghanistan è cominciata nel 2015 per rifornire il mercato iraniano. Sono stati i chimici persiani e gli afghani che avevano lavorato nei laboratori oltreconfine a fornire la necessaria formazione ai “cuochi” locali. Nei primi anni di attività, tuttavia, i trafficanti sono ricorsi all’importazione di farmaci dal Pakistan per approvvigionarsi di efedrina, incorrendo in costi talmente alti da azzerare i profitti finali. È stata la recente scoperta di una fonte alternativa, economica e a portata di mano, racchiusa in quei cespugli di oman, a far sgorgare impetuoso il flusso dello stupefacente.


Il fiotto di metamfetamina scorre libero attraverso il confine nel letto già tracciato dal traffico di oppio e di eroina. Le regioni iraniane di frontiera sono impoverite e abitate da minoranze discriminate, compresi centinaia di migliaia di profughi afghani. Il rischio di essere impiccati per narcotraffico per alcuni è preferibile a quello di morire di fame o sui campi di battaglia siriani, nelle file delle milizie mandate in aiuto del regime di Bashar al-Assad. I trafficanti girano comunque armati fino ai denti e la guerra ufficiosa con le guardie di frontiera ha mietuto migliaia di vittime nel corso dei decenni.


Parte della droga travalica poi i confini persiani. I narcos di Teheran stanno aumentando le esportazioni all’estero. Uno dei paesi più colpiti, in virtù degli alti profitti che garantisce il suo mercato, è l’Australia. Sono in crescita sia il numero dei sequestri sia i quantitativi di metamfetamina trafficata nel paese oceanico: lo scorso gennaio due cittadini iraniani sono stati arrestati a Sydney per essersi fatti spedire 250 chili di prodotto, per un valore finale equivalente a 120 milioni di euro.


A ovest, il fiume di cristalli termina – forse – il suo viaggio defluendo in Iraq. La febbre per l’amfetamina nel paese arabo ha avuto un primo picco nel 2014, durante l’apogeo dello Stato Islamico (Isis). I jihadisti di al-Baghdadi erano ben forniti di pillole di fenetillina (Captagon), prodotta o importata dalla Siria. La consumavano per mantenersi vigili e spietati sui campi di battaglia e la trafficavano per rimpolpare le casse dell’organizzazione. Il crollo territoriale dell’Isis e la ripresa del controllo delle frontiere da parte dell’esercito iracheno ha prosciugato il flusso, lasciando campo libero al prodotto in arrivo dall’Iran.
 

 

I narcotrafficanti del paese asiatico hanno scoperto come estrarre il principio attivo contenuto nella pianta, l’efedrina, che utilizzano come precursore per produrre metamfetamina. I contadini guadagnano appena pochi centesimi di dollaro al chilo per questo raccolto. Ma l’attività è comunque redditizia perché l’oppio e la cannabis non crescono bene in quest’area e l’efedra non richiede nemmeno lo sforzo della coltivazione. La domanda è inoltre inesauribile: i mercanti che riforniscono i laboratori clandestini caricano tonnellate di arbusti alla volta sui propri camion.


Proprio l’abbondanza di efedra selvatica ha innescato la diversificazione del narcotraffico afghano, la transizione dal predominio dell’oppio a quello dei cristalli di metamfetamina, chiamati sheesha e resi noti al pubblico occidentale dalla serie tv BreakingBad. Ricavare l’efedrina dalle piante è un’alternativa molto più economica per i criminali locali rispetto alla produzione o all’importazione della sostanza. La sintesi artificiale richiede infatti impianti industriali e la vendita del principio puro o dei farmaci che lo contengono, come preparazioni per curare la tosse e decongestionanti nasali, è regolata proprio per evitarne l’uso illecito.


A portare alla luce la produzione afghana di metamfetamina, fornendo dati preziosi,sono state alcune recenti ricerche della International Drug Policy Unit della London School of Economics, del progetto europeo Eu4Monitoring Drugs (Eu4md) e della Global Initiative Against Transnational Organized Crime. Da queste indagini è emerso che lo stupefacente prodotto in Afghanistan è destinato a soddisfare sia la crescente domanda interna sia il diffuso appetito per la sostanza in Medio Oriente. In primo luogo nel vicino Iran.


La Repubblica Islamica ha un grave problema di tossicodipendenza: una stima ufficiale risalente al 2017 ipotizzava che quasi tre milioni di iraniani, su una popolazione di quasi 83 milioni di abitanti, avessero problemi di dipendenza da sostanze stupefacenti. L’oppio, il cui consumo è tradizionale, è la droga di gran lunga più popolare insieme all’eroina. Si è diffuso però anche il consumo di cocaina e droghe sintetiche: secondo le stime sopracitate, i tossici di metamfetamina erano poco meno di 250 mila. I consumatori, tenendo conto di chi ne fa uso occasionale e dei poliassuntori, sono sicuramente di più: nella sola Teheran si ritiene l’abbiano provata almeno una volta più di mezzo milione di abitanti.
 

La metamfetamina costituisce oggi il 60% della droga trafficata in Iraq e il suo epicentro sono le province meridionali, lungo il poroso confine con la Repubblica Islamica. Secondo gli ufficiali iracheni, tutti i gruppi armati hanno le mani in pasta nel traffico: bande criminali comuni, estremisti sunniti e milizie sciite. Queste ultime, oltre a godere della protezione dei pasdaran iraniani, si servono del narcotraffico per alimentare lo scontro politico con i rivali sunniti. Nelle aree sotto il proprio controllo i gruppi armati sciiti costringono i negozi di liquori a chiudere, con le buone o con le cattive. Una battaglia portata avanti in nome del divieto coranico di bere alcolici, in realtà rivolta contro la Turchia sunnita, i cui fornitori detengono il monopolio delle esportazioni di whisky e affini in territorio iracheno. A chi vuole sballarsi i miliziani offrono un’alternativa: la metamfetamina iraniana.


Gli altri teatri regionali di conflitto, Siria e Libano, subiscono anch’essi un aumento dei problemi legati al consumo di sostanze, lecite e illecite, e continuano a essere centri di produzione di fenetillina. Lo scorso luglio nel porto di Salerno la Guardia di finanza ha sequestrato un colossale carico di pillole, ben 84 milioni, nascoste in tre container provenienti dalla Siria. La spedizione era partita dal porto di Latakia, roccaforte del regime di Assad: al pari dei rivali jihadisti, anche il dittatore siriano e i suoi alleati libanesi degli Hezbollah ricorrono al narcotraffico per finanziare il costoso sforzo bellico.

 

Il sequestro di Salerno è la prova lampante che la febbre delle amfetamine in Medio Oriente deve preoccupare l’Italia. Seguendo le stesse rotte già battute dall’eroina, l’efedra contenuta negli steli afghani potrebbe arrivare presto nelle piazze di spaccio nostrane. Le mafie sono già attente e pronte a cogliere l’opportunità: gli investigatori sospettano che il colossale carico di pillole siriane fosse destinato a rifornire la camorra. I clan avrebbero così ovviato alle difficoltà di approvvigionamento dai canali europei tradizionali, messi alla prova dalle strette frontaliere legate all’epidemia.


La lotta al narcotraffico mediorientale non può però prescindere dalla formulazione e dall’applicazione di una valida strategia politica per la stabilizzazione della regione. La pace e la prosperità sono indispensabili per il rafforzamento e la cooperazione delle autorità nazionali dei singoli paesi. Sono necessarie anche per sottrarre ai trafficanti il loro primo bacino di utenza, quello locale. La crisi economica in Libano e in Iran e i conflitti senza fine in Iraq, Siria e Afghanistan costituiscono delle realtà da cui molti dei loro abitanti, soprattutto i giovani, anelano a fuggire. Chi non può farlo fisicamente, andando a ingrossare le file del dramma umano dell’emigrazione, ricorre all’evasione mentale. Anche con l’aiuto di un cristallo, in apparenza magico ma in realtà maledetto.


 

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Il 17/8/2021 Alle 21:03, chetestraceki ha scritto:

I barbari, caro nambo, c’erano già prima e non se ne sono mai andati del tutto, la destabilizzazione in Afghanistan è endemica da sempre e non solo da quando hanno una guerra civile che praticamente esiste ininterrotta dal 1979, quindi tanto meno da quando ci sono gli USA, 2001.

Inoltre, per me la barbarie è pure avere un tasso di analfabetismo altissimo (mi pare quasi il 70% con punte altissime tra anziani e donne), tra i peggiori al mondo, e pure questo - ahimè - da sempre e non da oggi. Per non parlare delle condizioni delle donne, del sistema giuridico, e di mille altre cose li.

Il compito che gli USA avevano non è mai stato ben chiaro nemmeno a loro, infatti in questi decenni hanno cercato di dare una narrazione ed un senso a un intervento che tanto senso non lo ha mai avuto (invece ne ha avuto, e molto, per il suo apparato bellico e tutto ciò che ci gira intorno): il terrorismo li non c’era (i taliban sono una confederazione clanico-tribale di milizie organizzate dai servizi segreti Pakistani  e non hanno mai avuto un piano dichiarato di terrorismo globale o espansione territoriale); si è vero hanno ospitato Al Quaeda ma per questo vai lì a fare una occupazione “Boots on the ground “ per 20 anni? Dovevano prendere Obama, l’hanno ammazzato in…..Pakistan, quindi?

Tutto al più si potrà dire che in 20 anni avranno installato li i loro collegamenti con persone e situazioni, creato i loro fili da muovere e le loro teste di ponte (per quanto probabilmente andranno tutte a finire appena fuori dei confini, soprattutto in Pakistan e paesi ex sovietici centroasiatici): Robetta, tutto sommato, magari utile più avanti, soprattutto se i taliban non riusciranno a sigillare il territorio come devono (per la loro stessa necessita, ora, di controllo del territorio e delle varie dinamiche interne), cosa non ovvia, come si sa quando si parla di Afghanistan. E se questi non saranno più “moderati”, come invece hanno promesso di essere.

 

Che poi, la sconfitta sia stata brutta ma anche ingigantita (anche con immagini caricate) perché forse conviene così, per il momento? Questo può’ essere, soprattutto in considerazioni di tanti aspetti, ma qui ne cito uno: che la guerra oggi la puoi fare, coi progressi tecnologici, in modo mirato e da casa (vedi droni, etc. I casi di interventi selettivi in Iran, Iraq, Somalia, etc.)?

Impeccabile.

Ad integrazione sottolineerei alcuni aspetti.

La situazione è molto complessa perché ci sono vari livelli: interessi cinesi legati a materie prime ( soprattutto quelle necessarie su dispositivi elettronici.

Interessi russi. Presenza importante della Turchia con Erdogan che ricomincerà a ricattare l’Europa circa apertura o meno di corridoi di profughi.

La produzione della droga di cui sono player importantissimo.

 

La politica USA è stata fallimentare da Obama passando per Trump fino a Biden ma come hanno fatto notare gente come Ian Bremmer e Edward Luttwak la realtà è che l’opinione pubblica americana non considera l’Afghanistan come argomento principe ( come poteva essere anni fa, dopo l’11/09/2001) quindi tutto va di conseguenza.

Certo che le promesse talebane valgono come quelle di un marinaio circa l’amnistia…

Modificato da fogueres

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Il 17/8/2021 Alle 20:52, Nambo ha scritto:

non concordo sul fatto di dire "sconfitta degli usa" solo perche se ne sono andati,secondo me hanno finito il loro compito far casino,destabilizzare come fanno sempre,e lasciare quel paese in balia dei barbari,per come la vedo io missione compiuta

concordo invece sul notare della collocazione geografica,in quanto potrebbe servire a creare rotture di palle alle varie potenze non allineate da te citate.

staremo a vedere...quando la pressione mediatica del covid cominciera a scemare

 

È proprio come la vedo io e avevo già provato a spiegare.

La stessa emergenza umanitaria che ne scaturisce fa sempre parte del loro piano e dei loro interessi.

Altro che sconfitta degli USA e dell'occidente, quelli vincono sempre... (dove per occidente intendo l'elite dominante non certo noi poveri diavoli)

Gli unici sconfitti sono sempre e comunque i popoli.

Modificato da callea
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40 minuti fa, callea ha scritto:

È proprio come la vedo io e avevo già provato a spiegare.

La stessa emergenza umanitaria che ne scaturisce fa sempre parte del loro piano e dei loro interessi.

Altro che sconfitta degli USA e dell'occidente, quelli vincono sempre... (dove per occidente intendo l'elite dominante non certo noi poveri diavoli)

Gli unici sconfitti sono sempre e comunque i popoli.

Quando sento che in Afghanistan sono stati spesi 3000 miliardi di dollari mi viene da ridere. Come se questi soldi fossero finiti chissà dove. In realtà sono finiti in piccola parte ai servi che hanno "governato" il paese (e che infatti sono fuggiti su aerei ed elicotteri pieni di oro e gioielli) e in grandissima parte alle industrie delle armi occidentali. Anche noi italiani abbiamo spizzicato, vendendo agli usa gli aerei da trasporto G-222, aerei rivelatisi del tutto inadeguati e i cui relitti giacciono vicino all'aeroporto di Kabul. 

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1 ora fa, callea ha scritto:

È proprio come la vedo io e avevo già provato a spiegare.

La stessa emergenza umanitaria che ne scaturisce fa sempre parte del loro piano e dei loro interessi.

Altro che sconfitta degli USA e dell'occidente, quelli vincono sempre... (dove per occidente intendo l'elite dominante non certo noi poveri diavoli)

Gli unici sconfitti sono sempre e comunque i popoli.

Funziona così purtroppo....avevo pensato"le guerre ormai sono un business superato dalla guerra sanitaria odierna.....manco per il caxxo invece

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Secondo me la sconfitta dell’Occidente sta nel modo non nei perché 

I perché non so roba per noi … strategie geopolitiche, economiche.. si vola alto

 

il modo però è facile da vedere . E sotto gli occhi di tutti che non si sta abbandonando l’Afghanistan, si sta scappando alla male e peggio lasciando nella merda un popolo

 

che le potenze mondiali dicano sticazzi di quel popolo ci sta ( non per me sia chiaro , parlo del contesto) ma che addirittura non tratti preventivamente per portare a casa in modo tranquillo almeno i tuoi collaboratori e i loro familiari stretti non esiste! 

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12 ore fa, lustronculino ha scritto:

Secondo me la sconfitta dell’Occidente sta nel modo non nei perché 

I perché non so roba per noi … strategie geopolitiche, economiche.. si vola alto

 

il modo però è facile da vedere . E sotto gli occhi di tutti che non si sta abbandonando l’Afghanistan, si sta scappando alla male e peggio lasciando nella merda un popolo

 

che le potenze mondiali dicano sticazzi di quel popolo ci sta ( non per me sia chiaro , parlo del contesto) ma che addirittura non tratti preventivamente per portare a casa in modo tranquillo almeno i tuoi collaboratori e i loro familiari stretti non esiste! 

infatti sarebbe interessante sapere chi ha deciso la strategia politico-militare della ritirata, perché qualche spiegazione sarebbe interessante sentirla

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38 minuti fa, BuFERA ha scritto:

infatti sarebbe interessante sapere chi ha deciso la strategia politico-militare della ritirata, perché qualche spiegazione sarebbe interessante sentirla

Biden ha dichiarato che pensava che l'esercito regolare resistesse più a lungo. Sembra di sognare, cazzo.

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7 minuti fa, NINNI ha scritto:

Biden ha dichiarato che pensava che l'esercito regolare resistesse più a lungo. Sembra di sognare, cazzo.

appunto, me sembra strano che quella decisione sia stata presa così, senza una consulenza un minimo competente da qualche stratega militare

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1 ora fa, BuFERA ha scritto:

infatti sarebbe interessante sapere chi ha deciso la strategia politico-militare della ritirata, perché qualche spiegazione sarebbe interessante sentirla

Kalay Khalilzad è stato influente nella amministrazione Trump e colui che ha trattato gli Accordi di Doha 2020.

Jared Kushner, suo cognato di origine ebrea, era piuttosto influente su questioni mediorientali, non so sullo specifico afgano, credo si muovesse di più su questioni economico-finanziarie con contorno quelle geopolitiche.

Mike Pompeo il Segretario di Stato di quella amministrazione.

In politica estera da anni Biden, già dai tempi della sua vicepresidenza con Obama, si fa consigliare da Antony Blinken, suo Segretario di Stato oggi, convinto che Kabul avrebbe resistito per 2-3 anni (Sic)

 

Ovviamente negli USA governano gli apparati statali, non certo un singolo. Il Presidente può certamente influenzare le decisioni (soprattutto quelli che sanno orientarsi politicamente e nei palazzi del potere americani), più che altro a livello di esigenze politiche dell'amministrazione. Per esempio i frettolosi accordi di Doha scaturiscono dalla volontà dell'amministrazione Trump di capitalizzare a livello elettorale l'opposizione dei cittadini a stelle e strisce alla guerra in Afghanistan.

Certamente l'amministrazione Biden si è avvalsa di una intelligence e dei report e consulenze totalmente errati rispetto alla situazione reale sul campo.

Poi c'è la Nato (che comunque è di casa a Washington), i rappresentanti della missione ISAF e varie altre organizzazioni più  o meno parallele, i think thank e chissà, le associazioni private di contractors.

Di certo non hanno fatto nemmeno una telefonata ai rappresentanti afgani né tanto meno agli alleati per concordare tempi, logistica, coordinamento e modalità.

Insomma, un bel po' di gente 😆

 

 

Modificato da chetestraceki

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1 ora fa, BuFERA ha scritto:

appunto, me sembra strano che quella decisione sia stata presa così, senza una consulenza un minimo competente da qualche stratega militare

Perché un conto è valutare erroneamente la capacità di resistenza dell'esercito; un conto è non capire che l'esercito si sarebbe sciolto senza neanche combattere. 

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Perché un conto è valutare erroneamente la capacità di resistenza dell'esercito; un conto è non capire che l'esercito si sarebbe sciolto senza neanche combattere. 
Più che l'esercito, lo stato con tutta la carovana di politici e tecnici afgani.
Se il secondo praticamente non esiste, il primo è impossibile che possa opporre una qualche forma di resistenza.

Poi, di che esercito si parla? La metà degli effettivi manco esistevano. L'aeronautica? Avevano gli aerei, certo, ma da quando gli americani hanno iniziato a ritirare il personale la manutenzione era praticamente azzerata. Sono riusciti a decollare solo quelli per andare oltre frontiera..

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