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tomasso

utente ss lazio 1900

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Ora mi posso anche fermare ma con questo non ho voluto "attaccare" niente e nessuno, bensì soltanto dimostrare a certe persone che l'intolleranza porta all'odio e al rancore tra persone, genti, popoli, fino ai vicini di casa e parenti. Purtroppo viviamo in un mondo dove l'essere umano non conosce il rispetto e la dignità umana verso un suo simile ed allora ecco cosa succede che come nel nostro forum ci sono i Tomasso e i Purinum nel mondo che ci circonda ci sono altrettante persone pronte a diffondere il verbo della violenza, dell'antisemitismo, dell'odio e della guerra....NON VI SEMBRA CHE UNA CELTICA POSSA PASSARE INOSSERVATA SENZA STARE A FARE TANTE PIPPE? <_<

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Ora mi posso anche fermare ma con questo non ho voluto "attaccare" niente e nessuno, bensì soltanto dimostrare a certe persone che l'intolleranza porta all'odio e al rancore tra persone, genti, popoli, fino ai vicini di casa e parenti. Purtroppo viviamo in un mondo dove l'essere umano non conosce il rispetto e la dignità umana verso un suo simile ed allora ecco cosa succede che come nel nostro forum ci sono i Tomasso e i Purinum nel mondo che ci circonda ci sono altrettante persone pronte a diffondere il verbo della violenza, dell'antisemitismo, dell'odio e della guerra....NON VI SEMBRA CHE UNA CELTICA POSSA PASSARE INOSSERVATA SENZA STARE A FARE TANTE PIPPE? 

 

 

avevo scritto un altro tipo di messaggio, non mi ero accorto della tua conclusione...ti stringo idealmente la mano (e ti tocco il culo)

Modificato da Ussaro

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dal sito anticomunismo:

 

FAUSTINO:

Ce lo servono a tutte le ore, in tutte le salse, su tutti i canali. I politici che parlano e straparlano di conflitto d’interessi e i Soloni sinistrorsi che si profondono in raffinate analisi sull’avvento di un "fascismo postmoderno", la cui arma non sarebbe più il manganello, ma la manipolazione mass-mediatica, non battono ciglio di fronte al tasso di presenzialismo televisivo dell’uomo in pantaloni di vigogna, pullover di cahemire e calzini a losanghe, che con l’inconfondibile gestire delle mani e lo sguardo ben fisso nelle telecamere affinché lo spettatore lo fissi, riversa con inarrestabile eloquio le sue analisi all’insegna della più ferrea ortodossia veteromarxiana. Lo hanno definito "l’ultimo raffinato Savonarola del marxismo", il "Gioacchino da Fiore laico", ma anche "il dandy più dandy del Palazzo" e "il comunista Vogue". Lui si definisce un autentico "operaista", anzi uno "spontaneista luxemburghiano". Certamente, il suo è il caso più clamoroso, in Italia, di sindacalista salito rapidamente sulla cresta dell’onda della politica.

 

Come quei soldati giapponesi che, anni dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, venivano ogni tanto ritrovati su qualche isola dell’estremo Oriente, del tutto ignari che la guerra era finita da un pezzo, Bertinotti sembra non essersi mai accorto del crack epocale che ha travolto i "paradisi" del socialismo reale, e seguita a portare in giro il Verbo di un marxismo da catacomba. Ultimo aedo dell’ideologia più sconfitta e sputtanata di tutta la storia, non ha esitazioni a sostenere che "il comunismo è inscritto nel futuro dell’umanità", e dell’avvento del Verbo del filosofo di Treviri ha fatto la sua missione di vita. Per questo, sono in tanti, anche tra coloro che non si sognerebbero mai di votare Rifondazione, anzi neppure a sinistra, a dipingerlo come un "idealista", un "puro", un indomito guerriero al servizio della causa dei poveri, degli esclusi, degli emarginati. Infinite volte lo si è sentito lodare come politico "coerente", come se la coerenza nel continuare a sbandierare l’ideologia che ha fatto dagli ottanta ai cento milioni di morti fosse una virtù. Di fronte ai suoi sillogismi sindacal-sinistresi, c’è stato e c’è tuttora chi ne parla come di un "intellettuale" – lui che è un perito industriale -, lodandone il presunto acume e rigore. Persino i gesuiti di "Civiltà Cattolica" lo hanno commendato come "politico intelligente e pragmatico". Per non parlare, poi, di chi ne esalta la "simpatia" e addirittura il "sex appeal"! Questa stucchevole moda è così diffusa, che, per quanto paia grottesco, è necessario fare un poco di chiarezza sulla pasta di cui è realmente fatto l’uomo e il politico che tanti, anche fuori degli ambienti ex-, filo-, para-comunisti e comunisti tout court, seguitano incredibilmente a prendere sul serio.

 

Il futuro samurai rosso nasce il 22 marzo 1940 a Milano, in via Solone 11, al confine con Sesto San Giovanni, detta la "Stalingrado italiana", in una casa di ringhiera con il water closet in comune a tutti gli inquilini, in un angolo del cortile. La primissima formazione il piccolo Fausto la riceve dal padre Enrico, ferroviere antifascista che durante la Resistenza tiene nascosto in casa un partigiano, e, appena finita la guerra, si iscrive al partito socialista. I racconti del partigiano, i comizi di Pietro Nenni, a cui il padre non mancava mai, portandolo spesso con sé, ma anche il rituale, trepidante ascolto di Radio Londra e di Radio Praga sono tra i ricordi più antichi di Fausto Bertinotti. Il padre, anticlericale ma rispettoso della fede cattolica della moglie Rosa, iscritto alla Cgil e fondatore della Casa del popolo a Varallo Pombia, paese natale in provincia di Novara, ama Rousseau, e ne consiglia la lettura a Fausto e al fratello maggiore Ferruccio. Così, il "Contratto sociale" e "Emilio" diventano i livres de chevet del futuro leader comunista, insieme a Gramsci, Marx e Lenin.

 

Fausto inizia i suoi studi a Milano e li termina a Novara, diplomandosi perito industriale presso l’istituto Omar. Il suo tempo libero lo trascorre in viale Monza, dove gioca a pallone nella squadra dei "casciavit", i poveri, che contendevano il primato ai "bauscia", i ricchi. "Il suo patriottismo di classe – dice Roberto Gervaso – nasce allora, sui campi di football, tra una partita e l’altra. E nasce allora il piccolo Zorro degli sfruttati". Nel 1960 si trasferisce con la famiglia a Varallo Pombia, e si iscrive al Partito socialista, entrando a far parte della corrente di Riccardo Lombardi, che si contraddistingueva per la sua intransigenza e per il suo attivismo in favore della nazionalizzazione dell’energia elettrica.

 

Insoddisfatto del Psi, Bertinotti emigrerà nel Psiup, nato nel 1964 da una scissione a sinistra del Partito socialista, e nel 1972 approderà al Pci. Ma le aspirazioni di carriera del giovane Fausto non sono ancora nel partito, bensì nel sindacato. Vi entra ("mi parve di toccare il cielo con un dito", racconta ai suoi biografi Norberto e Carlo Valentini) sempre nel 1964, grazie all’interessamento di Gianfranco Bighinzoli, sindaco di Varallo Pombia ed esponente storico del Pci novarese: "Un’ascesa lenta, ma irresistibile, una carriera cominciata dal basso e finita ai vertici; una dedizione assoluta alla Causa dei lavoratori per cui si batterà con la foga di un figlio del popolo che vuole riscattare il popolo".

 

Il suo tirocinio si svolge nelle sedi della Federazione italiana operai tessili di Trecate e Galliate. In seguito diviene segretario dei tessili di Novara e membro della segreteria della Camera del lavoro. Nel 1977 è ormai segretario regionale della Cgil piemontese. Nella sua trentennale carriera di sindacalista, i suoi avversari lo accuseranno di parlare molto, ma di firmare pochi contratti, ma lui replica che "di contratti ne ho firmati moltissimi, grandi e piccoli. E spesso, istintivamente, avrei voluto non firmarli, perché erano il risultato di compromessi che comportavano per i lavoratori una manciata di soldi dopo giorni e giorni di sciopero. Ma li ritenevo ugualmente un passo avanti, in quanto l’asprezza della lotta cementava per lo meno il legame tra la rappresentanza sindacale e la base". Un’ansia di rappresentare i lavoratori che, in lui, si fa quasi autoinvestimento di una missione salvifica: Emilio Pugno, storico sindacalista torinese, ha detto di lui che "Non ha mai lavorato", ma ai suoi biografi dichiara risolutamente che "il sindacalista deve conservare forte il senso di appartenenza alla classe lavoratrice, senza perdere di vista il fatto che gli imprenditori sono la controparte da fronteggiare"!

 

Nel 1980, sempre da segretario regionale della Cgil piemontese, è alla guida dei 35 giorni di occupazione della Fiat. La manifestazione dei quarantamila "colletti bianchi" contro gli arbitrii e l’irresponsabilità della Cgil costituirà una mazzata senza precedenti per la principale centrale sindacale italiana, e un suo smacco personale, ma il sospetto che in quel colpo di mano ci fosse qualcosa di sbagliato neanche lo sfiora. Di quella sconfitta dice: "sono orgoglioso di averla vissuta e di essere stato dalla parte giusta. E non ho nulla da rimproverarmi, perché esistono circostanze in cui si perde pur non avendo commesso tragici errori. Si perde perché l’avversario è più forte di te, perché una determinata situazione non è ancora sufficientemente matura". Del resto, non c’è nulla di strano nel fatto che Bertinotti ricordi come un’impresa epica quella che invece fu una sconfitta cocente per il sindacato e il Pci, se è vero che, come ha detto un sindacalista della Uil, "Bertinotti è sempre contro: per lui un accordo è accettabile solo se l’azienda accetta integralmente la piattaforma del sindacato". Anche da politico, è stato scritto, "Il suo sogno sono mille piazze piene di bandiere rosse, e una volta confessò che il miracolo in cui spera non è un trionfo elettorale ma uno sciopero totale alla Fiat, cioè lo scacco matto al Padrone. Ma lui sa che la sua vittoria non è di questo millennio, e siccome ha ragione Keynes, e sul lungo periodo saremo tutti morti, lui vive solo per la Lotta, ‘senza la quale c'è solo il salotto, il cretinismo parlamentare’. E dunque il suo terrore è una società senza scioperi, cioè ‘la desertificazione del conflitto sociale’".

 

La carriera di Bertinotti nella Cgil, comunque, va avanti, e l’ultima fase lo vede lasciare Torino per trasferirsi alla segreteria confederale di Roma, nel palazzo di corso Italia. Ben presto, entra in contrasto con i vertici del sindacato, che ritiene sia stato snaturato da un eccesso di burocrazia e da troppi compromessi con la classe imprenditoriale e il governo, che ne hanno minato l’autorevolezza di soggetto autonomo di contrattazione. Inoltre, Bertinotti denuncia uno scarso tasso di democrazia interna, "per cui il lavoratore non ritrovava più nel sindacato la sua casa". Questo dissenso lo porta ad entrare in polemica con l’allora segretario generale, Bruno Trentin, e a fondare una propria corrente minoritaria, che al congresso Cgil del 1991 presenta un documento, "Essere sindacato", in contrapposizione a quello di Trentin. La mozione rappresenta una vera e propria requisitoria, durissima, contro il "deficit di democrazia" e la "pratica consociativa di regime", e ottiene, inaspettatamente, il 15 per cento dei consensi a livello nazionale, con punte particolarmente elevate nei distretti più industrializzati.

 

La polemica con Trentin si fa quindi contrasto duro ed aperto, e, come ricorda Giuliano Cazzola, finisce per trascendere il piano delle argomentazioni, per diventare contrapposizione fine a se stessa: "Bruno Trentin aveva simpatia per Fausto Bertinotti, il quale aveva quel timore reverenziale che chiunque della nostra generazione nutriva nei confronti dell’altro. Bruno però non accettò mai che Fausto si fosse sottratto, con la fondazione di una corrente e la presentazione di una mozione, alla sua mediazione ecumenica. In quegli anni (i primi del decennio Novanta) il dibattito in Cgil si era trasformato in un dialogo tra sordi, i cui protagonisti erano Trentin e Bertinotti. Il secondo aveva scelto di contrapporsi al primo, a prescindere dai contenuti: questa nuova realtà non veniva accettata da Bruno, il quale riteneva, non senza ragione, di poter rappresentare con la sua posizione politica anche le istanze di Bertinotti". Nella Cgil comincia a sentirsi un intruso. "Ma – scrive Gervaso – anche se con Trentin tutto filasse liscio, preferirebbe far politica".

 

L’occasione arriva, come è noto, in coincidenza con la trasformazione del Pci in Pds. Il crollo dei partiti comunisti dell’Europa orientale e la politica di Gorbaciov avevano aperto un ampio dibattito attorno al programma di rifondazione del Pci di cui già da tempo Achille Occhetto andava parlando, nel tentativo di porre rimedio ad un’emorragia di consensi che aveva segnato l’intero decennio ’80, e che pareva inarrestabile. La proposta, avanzata per la prima volta al XVIII congresso del partito (17 – 22 marzo 1989), e riproposta al Comitato centrale del 26 novembre, accompagnata da quella dell’abbandono del vecchio nome, segnò l’inizio di una fase di astioso e lacerante dibattito interno. Il successivo congresso, tenutosi dal 7 all’11 marzo a Bologna, approvò la proposta di cambiamento del nome, ma segnalò anche la presenza di una forte opposizione di principio da parte di due correnti: quella, storicamente filosovietica, di Armando Cossutta, e quella, meno intransigente ma di maggiore consistenza numerica, di Pietro Ingrao, la cui mozione raccolse il 30% dei consensi contro il 67% di quella di Occhetto. Il rifiuto di una parte della minoranza di aderire alla trasformazione del Pci in Pds trovò sbocco in una scissione da parte dell’ala guidata da Cossutta e nella nascita del partito di Rifondazione Comunista, che celebrò il proprio congresso costitutivo il 12 dicembre 1990. Alla segreteria del torinese Sergio Garavini (suo immediato predecessore anche come segretario generale della Cgil, e, a suo tempo, come segretario regionale piemontese), subentrerà nel ‘94, grazie all’appoggio di Cossutta, proprio Fausto Bertinotti, che tuttora la detiene.

 

Così, l’ex capo dell’"ala dura" della Cgil, tanto intransigente da non firmare nemmeno un contratto, è divenuto leader di un partito la cui stessa denominazione contiene un’ammissione di sconfitta della propria ideologia di riferimento (che cosa significa proclamare di voler "rifondare" il comunismo, se non riconoscere che questo si è squagliato come neve al sole?), in cui una vecchia cariatide filosovietica del Pci come Armando Cossutta (poi fuoriuscito, come è noto, per fondare il Pdci) è riuscita a trovare casa comune con i reduci del disciolto partitello di Democrazia Proletaria, a propria volta rudere di quel movimentismo extraparlamentare anni ’70 che detestava i "piciisti" quasi quanto il capitalismo e le multinazionali. Un partito in cui, naturalmente, hanno subito ritrovato un ovile le tante pecorelle smarrite della grande Chiesa comunista che non hanno voluto rinunciare ai loro sogni di palingenesi sotto il segno della falce e martello: dagli ultimi nostalgici della Resistenza, agli snobissimi e ormai più che stagionati intellettuali del "manifesto", a certi altri intellettuali "allo stato brado", come li definisce Gervaso, traboccanti di utopie egalitarie e di frustrazioni, di furore contro l’"arroganza della ricchezza" e di complessi, ma soprattutto ben pasciuti, perfettamente inseriti nella società dei consumi, perfettamente avvezzi all’uso della carta di credito, probabili ex militanti, insomma, di quel movimento, "Poteve Opevaio a Povto Votondo", di cui Paolo Villaggio, nell’ironico profilo autobiografico che apponeva alle quarte di copertina dei libri di Fantozzi, si definiva fondatore.

 

Alle elezioni politiche del 1996, l’eteroclita armata guidata dall’ex leader cigiellino ha incassato l’8% dei suffragi. Pochi? Molti? Dipende dai punti di vista. Comunque sufficienti a far sì che quella grottesca accozzaglia di sigle e siglette che era l’Ulivo di Romano Prodi (Pds, Ppi, Verdi, Diniani, Cristiano-sociali e altri cespugli, frasche e frescacce) non potesse fare a meno dei suoi voti per non affondare immediatamente. Questo potere di veto ha costretto più volte l’Esecutivo presieduto da Romano il reggiano a calarsi le brache di fronte agli ukase bertinottiani, e ha consentito a questo profeta del comunismo rifondato di imporre agli italiani, compreso quel 92% che non lo aveva votato, provvedimenti di portata storica. I due più importanti passi fatti, grazie all’ex leader di "Essere sindacato" e nuovo faro illuminante della redenzione marxista, verso il Sol dell’Avvenire, sono la creazione dell’agenzia "Sviluppo Italia" e i "lavori socialmente utili".

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QUESTO COME QUELLO SOPRA PER QUELLI CHE NON SI SENTONO DEMOCRATICI DI SINISTRA MA COMUNISTI...

 

STESSA FONTE..

 

FAUSTINO E 2:

Grazie al potere di ricatto che era in grado di esercitare sulla maggioranza prodiana, Bertinotti è infatti riuscito ad imporre, come prezzo politico per il suo appoggio, la creazione di una nuova struttura per il Sud. E’ quindi a lui, e al non ancora fuoriuscito Cossutta, che gli italiani devono andar grati del cadeau di una Cassa per il Mezzogiorno in edizione riveduta e corretta, o forse peggiorata. All’epoca, la maggioranza fece finta di tentennare, ma alla fine accettò, e il progetto rimase in cantiere anche dopo l’uscita di Bertinotti dalla maggioranza, perché, bisogna riconoscerlo, faceva comodo non solo a lui, ma un poco a tutti: "Ai sindacalisti, che mantengono posti di lavoro inutili e garantiti. Ai grandi industriali, che succhiano altri denari statali. Ai politici, che portano nei loro collegi elettorali la buona novella: è ricominciata la festa". Che la nuova agenzia non sarebbe stata un modello di efficienza, lo si poteva già intuire dalla sua gestazione: c’è voluto un anno solo per trovarle il nome (Iri2, Irisud, Sud Spa, Asvom, Asio, Cipe Sud, Promosviluppo, infine Sviluppo Italia), e per pubblicare sulla "Gazzetta Ufficiale" un decreto che ne sanciva la nascita, ma non ne specificava minimamente la ragion d’essere. Quando ancora nessuno sapeva che cosa Sviluppo Italia avrebbe dovuto fare, però, era già ben chiara l’assegnazione delle poltrone, gestita con rara oculatezza spartitoria: un Consiglio di amministrazione a 5, composto da Carlo Callieri (vicepresidente di Confindustria), Carlo Borgomeo (ex dirigente Cisl, Mariano D’Antonio (diessino vicino ad Antonio Bassolino) e Paolo Savona (ex ministro ciampiano, poi dimessosi). Al di sopra di tutti, Patrizio Bianchi, ex prodiano proveniente da Nomisma e riconvertitosi ai Ds.

 

Alla fine, all’ente creato prima ancora di sapere che cosa avrebbe dovuto fare fu finalmente assegnato un compito quello di riorganizzare altri 8 enti che fino ad allora si erano occupati del Mezzogiorno, tutti, quale più quale meno, con l’usuale prassi di interventi a pioggia, finanziamenti di iniziative inutili e spartizione di poltrone (del consiglio di amministrazione di uno di questi enti, la IG, faceva parte Annamaria Carloni, compagna di vita dell'allora sindaco di Napoli, Bassolino). Per "fare ordine" tra questi enti furono stati scelti due costosi advisor, la KPMG e la Lazard Vitali Borghesi & C., oltre ad altri consulenti, e vennero loro commissionate perizie, profumatamente pagate, al termine delle quali fu decretato che nessuno dei 730 dipendenti degli otto enti sarebbe stato licenziato, anzi ne sarebbero stati assunti di nuovi. Tra questi, guarda caso, Dario Cossutta, figlio di Armando, che di questa creatura che doveva nascere come "struttura leggera" ed è diventata un infame carrozzone, può vantare, col Faustino, la paternità.

 

E’ stata ugualmente la sinistra che "dialogava" con Bertinotti, sperando così di scongiurare la crisi del governo Prodi ("la crisi più pazza del mondo", come la definì lo stesso presidente del Consiglio), a creare nel 1997 quei posti di lavoro artificiali che, per dissimularne la patente inadeguatezza a risolvere i problemi dell’occupazione e per giustificarne l’esistenza, sono stati definiti "socialmente utili": migliaia di lavoratori "coltivati in vitro", che, se fosse valida la vulgata sinistrorsa dello "sfruttamento" perpetuata da Bertinotti e dai sindacati, andrebbero considerati "schiavi di Stato" (850mila lire al mese!), ma che nondimeno rappresentano per i contribuenti un fardello tutt’altro che indifferente. Se a marzo del 1999 erano poco più di centomila, appena tre mesi dopo erano già aumentati di circa 5.500 unità: un piccolo esercito di disoccupati retribuiti, concentrati soprattutto al Centro e al Sud, che già allora ne assorbiva più di tre quarti (il Veneto ne contava 1.108, il Friuli 291, il Trentino Alto Adige 94, ma la Puglia ne faceva registrare 15.211, la Campania 32.720, la Sicilia 41.958). Cifre che bastano da sole ad evidenziare come dietro la squallida ipocrisia della formula "lavori socialmente utili" si celi nulla di più che un nuovo volto della solita realtà di sussidi e assistenzialismo.

 

A fine ottobre dello stesso anno, l’allora ministro ulivista del Lavoro, l’irriducibile Cesare Salvi, annunciava una proroga dei contratti fino alla primavera successiva, ma era costretto ad ammettere che come strumento di politica per il lavoro si era trattato di un autentico fallimento. Nel giugno 2001, ormai crollato l’Ulivo e da tempo insediatosi l’Esecutivo Berlusconi, una relazione del ministero del Lavoro rilevava che si era verificata "una crescita indiscriminata dei lavoratori socialmente utili che anziché uscire dal bacino relativo continuano a rimanervi per lunghi periodi di tempo", e le amministrazioni pubbliche ammettevano di non essere in grado di regolarizzarne nemmeno uno. Oltre mille miliardi all’anno è il costo di questi infelici, frutto della dedizione alla Causa degli sfruttati e degli oppressi dell’indomito Fausto, sulle tasche del contribuente. E quale sia la loro reale "utilità sociale" è facilmente intuibile, solo che si pensi allo stato in cui versano alcuni dei settori in cui sono stati inseriti: il ministero di Grazia e Giustizia, ad esempio, ne utilizza 1.312 per il "miglioramento dell’efficienza dei servizi nell’amministrazione della giustizia e negli uffici giudiziari"; al ministero dei Beni Culturali ne sono stati collocati 1.856 per il "servizio di vigilanza, servizi inerenti ad attività amministrativo-contabili, attività museali, espositive e di valorizzazione dei beni culturali"

 

E dire che un’idea precisa sulla destinazione da dare a queste figure il Fausto l’avrebbe avuta: sguinzagliarli all’inseguimento degli evasori fiscali, quegli infami figuri per colpa dei quali lo Stato sarebbe costretto ad aumentare la pressione fiscale sui contribuenti onesti. La ricetta è semplice, e sintetizzata in uno slogan che riecheggia quello sulle 35 ore: "pagare tutti per pagare meno": se solo si riuscisse a far pagare agli evasori il dovuto, l’iperfiscalità potrebbe essere eliminata, e tutto tornerebbe a funzionare nel migliore dei modi.

 

Certo, Bertinotti, additando nell’evasore fiscale un criminale responsabile delle peggiori nefandezze, ha buon gioco nel far leva su una delle passioni che, purtroppo, più di frequente albergano nell’animo umano: l’invidia. Si cerca cioè, deliberatamente e irresponsabilmente, di istillarci la convinzione che se guadagniamo troppo poco (in base al nostro giudizio soggettivo di quanto sarebbe "giusto" guadagnassimo) è perché gli altri guadagnano troppo, e se paghiamo troppe tasse è perché altri ne pagano troppo poche o non le pagano affatto. Spinti a guardare con astio i nostri vicini, convinti che i colpevoli dell’eccessivo carico fiscale siano gli evasori, tendiamo a dimenticare che la sola causa di una fiscalità eccessiva e intollerabile è un rapporto tra spesa pubblica e prodotto interno lordo tra i più elevati del mondo (oltre la metà, secondo le stime più attendibili).

 

Ma può una mente che non abbia completamente divorziato dalla realtà, o dalla buona fede, immaginare che sia possibile "stanare" tutti, o anche solo buona parte degli evasori fiscali? Anche supponendo, per assurdo, che si riuscisse a scoprire due milioni di evasori, ognuno dei quali evada, in media, dieci milioni all’anno (un sogno insensato; dal momento che nessuno sforzo potrebbe mai riuscire a realizzare un risultato così importante), dal punto di vista quantitativo, i ventimila miliardi così recuperati sarebbero solo la classica goccia nel mare del dissesto pubblico:

 

Il fatto, poi, che l’"evasione zero" sia un traguardo non solo utopico, ma indesiderabile e controproducente, risulta inoltre immediatamente intuibile, solo che si pensi a quanto costerebbe perseguire tutti gli evasori: un costo non solo pecuniario, ma anche morale, dal momento che si tradurrebbe inevitabilmente in controlli, vigilanza e adempimenti di ogni genere, e che graverebbe in primo luogo, ancora una volta, sui cittadini che pagano le tasse. "Al limite – ha scritto ironicamente Antonio Martino – dovremmo far pedinare ogni potenziale evasore da un poliziotto in borghese!". Martino fa un’ipotesi per assurdo, ma Fausto Bertinotti non avrebbe potuto essere più serio, quando immaginava di rimpinguare gli organici della pubblica amministrazione – evidentemente, ai suoi occhi, non ancora abbastanza esuberanti – con un nutrito numero di "lavoratori socialmente utili", appositamente preposti ad inseguire chiunque si rifiuti di finanziare con la ricchezza da lui prodotta i beni, i servizi - e gli stipendi dei funzionari pubblici addetti a gestirli – che i politici come Bertinotti stesso hanno deciso essere "di pubblica utilità": "è necessario – ha dichiarato Bertinottii - potenziare la pubblica amministrazione, per aumentare la sua capacità di controllo fiscale. Si potrebbe così inaugurare una versione ad hoc dei lavori socialmente utili, perché la riduzione dell’evasione fiscale sarebbe un’attività molto utile, e, di conseguenza, si potrebbero immettere nella pubblica amministrazione giovani fortemente motivati, con opportuni e rapidi processi di formazione [corsivo nostro], concentrando la loro attività anti-evasione in punti da individuare in base a una mappa geografica e settoriale delle aree a maggior rischio". Decine, forse centinaia di nuovi burocrati-cerberi, adeguatamente "formati" e indottrinati all’ideologia statalista, e sguinzagliati a stanare altri lavoratori come loro, inclusi artigiani, commercianti, piccolissimi imprenditori, ma – così recita il catechismo che deve essere loro impartito – antisociali, criminali, e loro "nemici di classe".

 

Ma mentre, sfumato il sogno-incubo bertinottiano di un nuovo Stato di polizia, una parte dei lavoratori "socialmente utili" incomincia ad uscire dal programma senza essere riuscito a regolarizzarsi, tornando ad ingrossare l’esercito dei disoccupati, il loro nume tutelare seguita a sfoggiare scarpe Clarks, impermeabili Burberrys, non disdegna di rilasciare interviste a Capital, e, oltre alle consuete vacanze alle Seichelles che il lauto stipendio di parlamentare gli consente, si impegna in pellegrinaggi nella "paradisiaca" Cuba di Castro e nel Messico dei campesinos guidati dal subcomandante Marcos.

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E COME DIREBBE MOKE BONGIORNO SULLA PUNTA DEL CERVINO.....CONCLUDENDO...

 

FAUSTINO E 3:

 

Dell’isola caraibica, durante la sua visita del Capodanno ’97, ha dichiarato che è un Paese "dalle mille facce, capace di sorprendere", che nella sua storia non ha mai dimenticato "orgoglio, dignità e decoro". Al suo amico Fidel Castro Ruiz, presidente del Consiglio di Stato, presidente del Consiglio dei ministri, primo segretario dell’unico partito autorizzato, il Partito comunista cubano (Pcc), nonché comandante in capo delle forze armate, ininterrottamente al potere dal 1959, ha tributato "un lungo e sincero omaggio", definendolo "l’ultimo grande leader sulla scena del mondo", e attribuendogli esplicitamente una statura pari a quella del Santo Padre: "E’ sufficiente leggere gli ultimi discorsi di Fidel e del Pontefice per capire gli interessi comuni. Castro è oggi la voce del Terzo Mondo e la Chiesa apre di più ai Paesi poveri. La gente che soffre, i bambini che muoiono e la corsa folle agli armamenti sono le idee centrali di questi due leader".

 

Del piccolo Eden governato dal partito unico di questo eroico liberatore dell’umanità, Fausto decanta estasiato il basso tasso di mortalità infantile e l’elevato livello di alfabetizzazione, che a suo modo di vedere, lo porrebbero all’avanguardia tra i Paesi in via di sviluppo. Peccato che ad un’analisi un minimo attenta delle statistiche a cui il leader rifondazionista ama fare riferimento, le sue affermazioni si rivelino una clamorosa bufala. Particolarmente significativo, in questo senso, è l’"indice di sviluppo umano" ideato dall'UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Partendo dalla considerazione che i soli indicatori economici sono insufficienti a giudicare la qualità della vita di un Paese, questa organizzazione ha infatti elaborato un indice che nasce da una combinazione di PIL, istruzione (media degli anni di scolarizzazione e alfabetizzazione degli adulti) e speranza di vita. Ebbene, nel rapporto 2000, Cuba figura tra i paesi a medio sviluppo, al 54° posto, preceduta, in America Latina, dalle Barbados (29° posto), dal Cile (34°), dall’Argentina (38°), dall’Uruguay (39°), dal Costa Rica (44°), da Trinidad e Tobago (45°), dal Venezuela (47°) e da Panama (48°). Peggio di Cuba, oltre al Brasile e al Perù (entrambi al 72° posto), stanno solo il Paraguay (75°), El Salvador (95°), Bolivia (104°), Nicaragua (106°), Honduras (107°), Guatemala (108°). Il tanto sbandierato vantaggio di Cuba rispetto agli altri paesi dell'America latina, come si vede, è in realtà limitato quasi esclusivamente ai Paesi dell'America centrale. A quei Paesi, cioè, dove una buona fetta della popolazione, o la sua maggioranza, è composta da indios. Esso sembra quindi essere legato unicamente al fatto che la popolazione cubana è composta in prevalenza da ispanici, in partenza meglio nutriti, vestiti e istruiti delle poverissime popolazioni indigene del Centro America. Non a caso, questo vantaggio Cuba lo possedeva anche ai tempi di Batista. Resta invece tutto da dimostrare il fatto che questo vantaggio, pur così circoscritto, abbia qualche legame con la politica economica perseguita dal regime di Castro in questi decenni.

 

Di quale sia poi l’impegno del lìder màximo nella lotta alla "corsa folle agli armamenti" che per Bertinotti accomuna Fidel al Papa, è riprova la percentuale del PIL che il regime cubano destina alle spese militari: il 5,36%. Una cifra certo lontana da quelle, ad esempio, dell’Eritrea (primo Paese al mondo, con il 35,61%) o della Corea del Nord (14,29%), ma superiore a quella della Cina (5.33%), della Russia (5%) o dello Zimbabwe (4,95%), e che comunque pone Cuba al trentaseiesimo posto sui 226 tra Stati sovrani e territori non indipendenti del pianeta.

 

A chi gli fa notare che a Cuba lo stipendio medio di una commessa è di undicimila lire al mese, e che l’economia del Paese è puntellata dal sesso dei suoi adolescenti, Bertinotti e i suoi fedeli sono soliti replicare che la colpa è da attribuire all’embargo imposto dagli Stati Uniti di John Kennedy nel 1960, definito dal segretario di Rifondazione una sanzione "di una violenza e di una cattiveria inaudite". Ora, non c’è dubbio che gli embarghi siano provvedimenti sempre e comunque esecrabili, perché lesivi della libertà economica, e perché controproducenti, proprio in quanto forniscono un comodo alibi a dittatori come Castro, e ai loro vergognosi supporters nostrani come Bertinotti. Il quale, però, si dimostra talmente ebbro di ideologia, o talmente in malafede, da non rendersi conto che attribuire all'embargo, cioè all’impossibilità di intrattenere relazioni di mercato, la povertà di quel paese, significa ipso facto riconoscere la superiorità del mercato sul socialismo: se davvero una persona ritiene che la colletivizzazione dei mezzi di produzione sia - moralmente o effettivamente - superiore, viceversa, dovrebbe non criticare un embargo, ma invocarne dieci, cento, mille!

 

Del resto, a parte il fatto che l’embargo preclude al regime cubano di commerciare con gli Stati Uniti, ma non gli impedisce certo di intrattenere rapporti economici con qualsiasi altro Paese al mondo, Bertinotti e i suoi simili omettono sistematicamente di ricordare quanta parte abbiano avuto, nel determinare lo stato di miseria del Paese, le folli scelte di politica economica del suo leader.

 

Già nel lontano 1972, in occasione del 17° anniversario dell’assalto alla Caserma Moncada, Castro era stato costretto a pronunciare davanti ai suoi sudditi una clamorosa autocritica, confessando il disastroso andamento della gestione economica del suo regime, e, in particolare, il miserando fallimento del progetto, per il quale aveva mobilitato l’intera popolazione abolendo tutti i giorni festivi e tutte le ferie per tutti, di un super-raccolto di 10 milioni di tonnellate di zucchero. In precedenza, Castro aveva proclamato per anni che la rovina di Cuba era stata la monocultura zuccheriera, voluta dagli "imperialisti" statunitensi e dai loro "lacchè batistiani", perché in tal modo l’economia cubana veniva a dipendere interamente dal raccolto dello zucchero e dall’arbitrio dei suoi acquirenti: gli americani. Così, i castristi si lanciarono in una campagna di diversificazione delle colture, con l’obiettivo di raggiungere una sorta di autarchia agraria, ma "la nuova politica agraria, destinata ad assicurare a Cuba ‘magnifiche sorti e progressive’, si [urtò] contro la realtà oggettiva delle rese unitarie e del chimismo dei terreni: a dispetto delle infinite chiacchiere e invettive dei castristi, le colture diversificate risultarono di gran lunga meno produttive e convenienti di quella zuccheriera". Così, a partire dal 1963, il regime castrista fece marcia indietro, ripristinando la monocultura zuccheriera e invocando dall’Unione sovietica l’acquisto quasi totale dei raccolti (con tanti saluti all’indipendenza economica e politica). Da allora, Castro si impegnò in una "battaglia dello zucchero" che ricordava la "battaglia del grano" di mussoliniana memoria, ma fino al 1968, malgrado la propaganda, la produzione restò inferiore a quella realizzata da Cuba sotto il detestati regime di Batista., senza che neppure gli aiuti provenienti dall’Urss (900 miliardi di lire dell’epoca all’anno, per un Paese di 7 milioni di abitanti!) riuscissero a risollevare Cuba dalla crisi produttiva.

 

Del resto, la "battaglia dello zucchero" non è stata certo la sola folle trovata del dittatore. Alina, la figlia ribelle di Castro, esule dal ’95, intervistata da Federico Guiglia, racconta: "Se si guarda con una lente d’ingrandimento alle sue ‘imprese’, si scoprirà che tempo fa gli era passato per la testa di creare una nuova varietà di vacche e per anni ci parlò di questi incroci straordinari, che avrebbero trasformato l’isola in una potenza della carne. Poi aveva deciso che Cuba dovesse diventare un simbolo nella medicina, e giù a formare dottori su dottori. Poi s’intestardì nella prospettiva di una nazione nucleare".

 

Quanto all’"inaudita violenza" di cui parla Bertinotti a proposito dell’embargo, non si può non rilevare come il segretario comunista si guardi bene dal fare parola delle violenze di cui il suo beneamato regime si rende artefice. Una dittatura spietata, che nel giugno del 1991 ha istituito un corpo speciale, i Destacomentos Populares de Respuestas Ràpida, con il compito di stroncare ogni manifestazione di dissenso, e in cui gli oppositori politici, anche nonviolenti, o i semplici contestatori, finiscono in esilio o in galera, dove ne languono, pare, più di mille (ma, fa notare Amnesty International, è difficile ottenere informazioni precise sui prigionieri politici, perché a nessun soggetto internazionale di controllo sui diritti umani è concessa l’autorizzazione a visitare il Paese).

 

In occasione del suo incontro con il subcomandante Marcos, il suo più grande idolo insieme al compañero Fidel, Bertinotti ha avuto modo di dichiarare che "la lotta armata di liberazione nazionale sta nel nostro stesso Dna. Basta pensare a Cuba, all’Algeria stessa", e che "Noi, pregiudizialmente, non siamo contrari alla lotta armata: dipende dal contesto e dagli obiettivi". Parole che, se fossero state pronunciate da un qualsiasi esponente di un altro schieramento politico, avrebbero suscitato, in Italia, un terremoto, con interrogazioni parlamentari, infuocati editoriali della stampa "democratica" e accorati appelli dei soliti intellettuali "impegnati", e che invece non hanno destato alcuno scandalo: a un puro, a un idealista come lui tutto è permesso. Che quelle parole siano semplici svolazzi, peraltro, è dimostrato dal fatto che durante le devastanti giornate di Genova, quando i giovani militanti del suo partito, rigorosamente in abbigliamento d’ordinanza revolucionario (magliette di Che Guevara, kefiah, ecc.) non disdegnavano di manifestare a fianco dei casseurs dei centri sociali e dei famigerati Black Block, lo Spartaco dei baby pensionati ha preferito, prudentemente, attendere in un caffè che la manifestazione si avviasse alla conclusione, per accodarsi all’ultimo minuto.

 

Che dire di più? La statura umana del personaggio è stata ben definita dalla buonanima di Indro Montanelli ("un ometto da quattro soldi, che conduce a spasso un fantasma, quello del comunismo, morto non di pugnale o di bombe come il fascismo e il nazismo, ma di consunzione"), quella politica da Giorgio Bocca ("rifondatore di un comunismo definitivamente morto salvo che nel regime di fame e galera che è Cuba"), ma il passaggio dal sindacato alla politica gli ha regalato potere al tempo dell’Ulivo, e, sempre e comunque, presenze nei salotti dei Parioli, nelle pagine dei quotidiani, nei dibattiti televisivi di Gad Lerner e di Lucia Annunziata (qualche anno fa), e (tuttora) di Vespa e di Santoro, dove parla a ruota libera, sfoggiando un’eloquenza di lucidità e di concisione difficilmente eguagliabili, come mostra questo campione: "L’economicismo non si presenta più come un atteggiamento povero di antagonismo reale, ma si trova costretto a scegliere drasticamente tra la subalternità compatibilistica e l’urlo comparativo, qui nel senso proprio di negazione di una condizione di classe. Il rapporto tra ordinamento esistente e questa liberazione non sarebbe più quello dei due tempi, con la separazione del progetto dalla prassi, ma quello di un sistema di relazioni reciprocamente attive tra un’idea forza e una prassi sociale di controllo che ne inveri gli elementi che concorrono a ridefinire l’idea forza, potendo coniugare nel processo materiale gradualità e radicalità".

 

Non c’è che dire, una sintassi che ben si attaglia a chi ritiene che "il sindacalista deve conservare forte il senso di appartenenza alla classe lavoratrice", un linguaggio da cui emerge tutta l’appassionata volontà di farsi ascoltare dal metalmeccanico, dall’addetto alla catena di montaggio o al telaio, dal bracciante, dal contadino. Che deliri del genere possano infiammare ex sessantottini, ex femministe, ex "gruppettari", intellettualoidi frustrati, figli di papà ricoperti di icone del "Che" e con in tasca il più costoso modello di cellulare, si può anche comprendere. Ma i lavoratori meritano di meglio, e per fortuna, nella stragrande maggioranza dei casi, lo sanno bene.

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molta gente nn si e' accorta che siamo nel 2004,

ancora va cercanno li mostri de qua e de la'....

nn ci si rende conto che certe cose,ormai al giorno d' oggi sono completamente anacronistiche!

 

ricordare la storia,come e' giusto che sia,ma nn solo una parte,e andare avanti nel mondo....

purtroppo a molte persone,di qualunque sia lo schieramento politico,manca proprio la mentalita'....

Modificato da chouriço

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X PIZZOPAZZO

Dovevo lasciare il primo messaggio. Non ti sembra di stare esagerando? Ti riempi la bocca di tante belle parole ma sei tu il vero intransigente. Sono ore che nessuno posta più in questo topic e tu continui a fomentare una polemica che tutti credevamo chiusa. Certamente, se due persone dovessero fare a botte, tu saresti quello che invece di fare da pacere si mette a tirare le sediate...le risse nascono così.

Modificato da Ussaro

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avevo scritto un altro tipo di messaggio, non mi ero accorto della tua conclusione...ti stringo idealmente la mano (e ti tocco il culo)

Come direbbe qualcuno...

MEGLIO FROCIO CHE COMUNISTA :burt:

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daje....buttamola su la rissa!!!!!!

in caso contrario....

FAMO RESSA!!!!!!

 

se ce vene male,annamo al CESSO.......

 

altrimenti ce rimane x fortuna il

 

SESSO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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Dovevo lasciare il primo messaggio. Non ti sembra di stare esagerando? Ti riempi la bocca di tante belle parole ma sei tu il vero intransigente. Sono ore che nessuno posta più in questo topic e tu continui a fomentare una polemica che tutti credevamo chiusa. Certamente, se due persone dovessero fare a botte, tu saresti quello che invece di fare da pacere si mette a tirare le sediate...le risse nascono così.

te dò na botta calla e na botta fredda....dice che facendo così se scopa...

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X PIZZOPAZZO

Dovevo lasciare il primo messaggio. Non ti sembra di stare esagerando? Ti riempi la bocca di tante belle parole ma sei tu il vero intransigente. Sono ore che nessuno posta più in questo topic e tu continui a fomentare una polemica che tutti credevamo chiusa. Certamente, se due persone dovessero fare a botte, tu saresti quello che invece di fare da pacere si mette a tirare le sediate...le risse nascono così.

ATTENZIONE ANCORA UNA VOLTA .... Guarda che io è soltanto per goliardia che sto scrivendo tutto questo (dai Faustinistory alle foto) soltanto per vedere le risposte che daranno domani purinum e "compagni", ma ripeto il mio intento è quello di far capire alle persone di questo forum che la libertà altrui va "SEMPRE E COMUNQUE" rispettata a prescindere di quale forma, religione o colore faccia parte, se hai letto all'inizio dei miei interventi ho detto di essere un cattolico credente ma non mi sono mai sognato di aprire topic "denunciando" (e si che sarebbero passibili) le "bestemmie" che vengono dette anzi all'inizio appena arrivato il mio avatar era il Papa che faceva il gesto dell'ombrello e sono stato "richiamato da Respiro...mentre a te lascia il blasfemo Berlusconi Vescovo....e non sono tollerante? di sicuro sono un goliardico che sidiverte proprio quando incontra gente che non vuole capire cosa sia la libertà di espressione!!! ;)

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poi però al post

 

http://www.rossoverdi.com/index.php?showtopic=10833

 

nessuno risponde....

e mikis mantakas

e paololo di nella

e Cecchin

e i fratelli Mattei?? (uno aveva appena 8 anni)

e Sergio Ramelli???

premesso che erano anni difficili, che anche i "fasci" erano violenti...ma nessuno ha pagato per questi delitti....

per favore, queste prese di posizione...lasciatele da una parte, una celtica non è fascismo (ne conoscete la storia?? e perchè fu adottata dai militanti del Fronte della Gioventù???).

odio la saccenza degli unti del Signore, dei protettori della libertà....ma de che???

 

p.s.

resta inteso che i laziali sono infami

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Sulle altre immagini non ho niente da dire (anzi si, ma lasciamo stare) ma quella con il "campione del mondo" è veramente di pessimo gusto.

 

Non si scherza su certe tragedie. Cerca almeno di modificarla perchè così com'è mi fa girare i coglioni e neanche poco. <_<

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L'anticomunismo democratico in Italia                      Liberali e socialisti che non tacquero

su Stalin e Togliatti                                                        A cura di Massimo Teodori

 

Una diffusa opinione vorrebbe accreditare la tesi che l’anticomunismo italiano sia stato reazionario, clericale e di destra. Questo libro dimostra la falsità di questa tesi, e racconta la storia di democratici e libertari di varia origine e osservanza che si rifiutarono di diventare compagni di strada del movimento comunista e dell’Unione Sovietica

 

 

Caro Purinum,

ecco un buon suggerimento per te.

Una lettura che mi sento di consigliarti,al pari di "Uscita di sicurezza" di Silone e "Il dio che è fallito" (raccolta di saggi scritti da ex-comunisti,tipo Silone,Camus....,rimasti fedeli alla sinistra democratica ma,proprio per questo,non meno anticomunisti di altri),potrei consigliarti,anche,Orwell,ma sono certo che "Omaggio alla Catalogna" lo avrai letto...visto che,in passato,hai scritto di aver visto "Terra e libertà" di Loach che al libro di Orwell è ispirato...non mi dirai che,anche,Orwell era un bieco reazionario di destra.

Per essere anticomunista non serve richiamarsi ai principi di destra...basta rifarsi a tutta la tradizione liberaldemocratica e liberalsocialista (...almeno per me) ;) .

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ma non ho capito, SCUSATE:

 

 

voi postate stelle rosse, voi postate facce de lenin, voi postate avatar con su scritto chi ama la musica odia il fascismo ( ma do sta scritto poi ), E CHI LA PENSA DIVERSAMENTE DA VOI DEVE INVECE ASTENERSI ?????

 

BELLA DEMOCRAZIA!!!!!!

lubiondo ha ragione. Se si vuole evitare di incappare in certe immagini, bisogna essere i primi a non diffonderne. Tutti sanno come la penso, ma è chiaro che chi crede di essere il padrone dello stadio, del forum e della città dovrebbe darsi una calmata.

 

PICCOLA RIFLESSIONCINA

Terni e la Ternana...sono dei ternani, non dei comunisti e dei fascisti. Ci siamo ormai abituati (sbagliando) ad una situazione per la quale allo stadio non si possono esporre certe immagini, ma si passa tranquillamente sopra a cori e vessilli di segno uguale e contrario.

 

Nel mio avatar è raffigurato Papa Pio Berlusconi (in arte Pio Tutto)...sarebbe bella se fossi IO a minacciare qualcuno di togliere un avatar con la caricatura di Rutelli!

 

 

A quanto mi risulta, TRA L'ALTRO, LA CELTICA NON E' UN'IMMAGINE CHE HA ORIGINE NEL FASCISMO O IN UN QUALUNQUE ALTRO REGIME DITTATORIALE (LA STELLA ROSSA CREDO PROPRIO DI SI'). LA CELTICA NON E' LA SVASTICA. SVEGLIAAAA!!!!!!! LA CACCIA ALLE STREGHE E' FINITA DA UN PEZZO...NON SARA' CHE LE COSE NON VANNO BENE PROPRIOP PERCHE' C'E' ANCORA CHI E' CONVINTO DELL'ESIGENZA DI FARE LA CACCIA ALLE STREGHE???PER VOSTRA INFORMAZIONE, MENTRE DA UNA PARTE SI FA LA CACCIA ALLE STREGHE, SI PARLA ANCORA DI TEMI TIPO "PRIVATIZZAZIONE SI', PRIVATOZZAZIONE NO", LA DESTRA E' AL GOVERNO....E LO DICO CON IL DOLORE NEL CUORE, FIDATEVI, PERCHE' DA RADICALE (ME NE FOTTO DI QUELLO CHE DICONO CAPEZZONE E PANNELLA) NON POSSO VEDERE DI BUON OCCHIO UN GOVERNO A CAPO DEL QUALE C'E' CHI HA COSI' TANTI INTERESSI (INTERESSI PERSONALI E LIBERTA' INDIVIDUALI DI AUTODETERMINARSI NON SI CONCILIANO MOLTO BENE).

Sagge parole.

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Rimane il triste fatto che c'e' gente che ritiene ancora oggi di porsi AL DI SOPRA degli altri per l'esclusivo fatto di stare da una certa parte politica. E in questo modo non si va avanti. Speriamo che almeno il laboratorio di questo forum riesca nel suo piccolissimo a cambiare qualche cosa.

 

ANTIFASCISMO = ANTICOMUNISMO

 

FASCISMO = NAZISMO = COMUNISMO

 

Finche' qualcuno non accettera' questo, staremo sempre messi male.

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ma non ho capito, SCUSATE:

 

 

voi postate stelle rosse, voi postate facce de lenin, voi postate avatar con su scritto chi ama la musica odia il fascismo ( ma do sta scritto poi ), E CHI LA PENSA DIVERSAMENTE DA VOI DEVE INVECE ASTENERSI ?????

 

BELLA DEMOCRAZIA!!!!!!

Stavo x scrivere la stessa cosa.

 

E non ci nascondiamo diero il fatto che il Fascismo è illegale in Italia e il Comunismo no. Sono pur sempre stati tradotti in dittature...

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x MANDOVAI

hai pienamente ragione; aggiungo che se in Italia si seguisse la politica nel giusto modo, gli imbroglioni che si annidano in entrambi gli schieramenti non avrebbero vita facile. SICCOME PERO', IN ITALIA CI PIACE IL CALCIO E SIAMO TUTTI TIFOSI, ESTENDIAMO QUESTO MODO DI VITA ALLA POLITICA: NON SIAMO ELETTORI MA TIFOSI DI QUESTO O QUEL PARTITO, E INTANTO LORO CE LO APPIZZANO 'AR CULO

Modificato da Ussaro

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vorrei far notare che il diretto interessato non s'è degnato nemmeno di una risposta.

SENZA PAROLE? :lol::lol:

 

HAI CAPITO DI AVER DETTO CAZZATE....

 

E ORA LEVA QUELLA SVASTICA DALLA FIRMA... :lol::lol::lol: (io scherzo...!!!!...io!!) :lol:

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Ma possibile che non capisci che più te la piji e peggio è? Ma allla fine dei conti che cazzo te ne frega ognuno sia responsabile delle proprie azioni poi senza incazzarti sarai tu a giudicare con chi postare o no, VIVI E LASCIA VIVERE!!.....FAI COME ME........"ME NE FREGO"...in senso stretto e non politico.. :stica:

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PIZZOPAZZO VORREI CHIEDERTI PERCHè POSTI TANTA MONNEZZA FASCISTA PER PROVOCARE ME, PURINUM ED ALTRI COMPAGNI, POI NELLA TUA FIRMA HAI UN PEZZO DELLA CANZONE "CIRANO" DI GUCCINI... NOTO CANTANTE FASCISTONE!

AVANTI CON LA COERENZA!

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PIZZOPAZZO VORREI CHIEDERTI PERCHè POSTI TANTA MONNEZZA FASCISTA PER PROVOCARE ME, PURINUM ED ALTRI COMPAGNI, POI NELLA TUA FIRMA HAI UN PEZZO DELLA CANZONE "CIRANO" DI GUCCINI... NOTO CANTANTE FASCISTONE!

AVANTI CON LA COERENZA!

mi sa che non hai proprio capito il senso dei suoi post...

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a toma'....

ma che te stai a inventa'?

mo uno nn po essere libero di gustare una canzone,ma nn fregargli un cazzo dell'ideale politico del cantante????

 

ma che vuoi dire con cio'?

nn mi sembra un discorso con molto senso.... :blink:

scusa ne'?!?

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